FERITE APERTE A SARNO: IL 5 MAGGIO A VILLA MALTA
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- Pubblicato Martedì, 21 Gennaio 2014 20:18
FERITE APERTE A SARNO: IL 5 MAGGIO A VILLA MALTA
Una domenica mattina autunnale, tempo misto sole e pioggia. L’Irpinia sembra sempre la sonnacchiosa di sempre, forse è volta di cambiare aria e andare dirimpetto. Non siamo lontanissimi dalla meta prescelta, basta giusto andare oltre le nostre montagne. Non è Irpinia e non è zona partenopea, è Agro Nocerino-Sarnese, quella terra di mezzo che connette Napoli e Salerno, e paesoni e campi coltivati e carciofi arrostiti sui cigli sdrucciolevoli delle strade statali e dei crocicchi sotto svincoli e rampe autostradali. Sembra tutto raffazzonato, un urbano non più rurale ma ancora capace di dirci che tra le strade e i capannoni e i palazzoni c’è un passato contadino che vuole ancora farsi riconoscere, ormai modificato a industria conserviera.
Anche questa volta riusciamo a farci accompagnare da un paio di peones che rubano il loro tempo alla domenica che poi si farà pallonara formato tagliatella ai funghi e divano. Andiamo a Sarno, partiamo all’improvviso come al solito, un paio di giri di chiamate e siamo già operativi. Il nostro autista, non ve lo dico proprio, torna dopo una settimana di campo scout, tiene la macchina uso ambulante del mercato del venerdì, torna a casa, votta tutto ‘pe l’aria ed è già pronto fresco come una rosa. Quando sarà, da qua a cent’anni, morirà contento.
Il 5 maggio ripercorre date abbastanza famose: il 5 maggio 1821 muore Napoleone (sì, non è che dobbiamo ricordare Manzoni, ma quest’è); il 5 maggio 2002 l’Inter perde lo scudetto con la Lazio con le due porpette di Poborsky (e qua già si fa un po’ più interessante, con le lacrime di Ronaldo a bordo panchina: il dramma sportivo è epopea, fosse pure la riffa di al bocciodromo); il 5 maggio 2000 muore Gino Bartali (e qui le cose si fanno serie, serissime). In questo lembo di Italia interna ricordiamo il 5 maggio 1998 per la pioggia a zeffunno, rovesci mai visti, una cosa indescrivibile, intensissima, batteva per ore come un djembè a dettare forsennatamente il ritmo. Era tardo pomeriggio, uno di quei momenti che rimane impresso: vero le 19 da noi aveva smesso di piovere, io personalmente ero uscito per prendere un pallone in giardino e rientrare. Il TG3 mostra le immagini delle colate di fango a Sarno, a Bracigliano, a Quindici, a Siano, proprio dietro le nostre montagne. Ettari di terreno si staccano, si imbibiscono d’acqua, scorrono verso i paesi sottostanti, adagiati tra la base delle colline del Pizzo d’Alvano e la piana Sarnese, il Vesuvio di fronte e la Madonna di Pompei a vegliare.
E’ il fini mondo, l’acqua entra in ogni dove, troppi gli oltre 160 morti distribuiti tra i vari paesi 137 nella sola Sarno, il paese più popoloso e ovviamente il più colpito. Si trova proprio nei canali di scolo naturali: l’acqua non può che scorrere da lì. Case sventrate; la frazione Episcopio, quella immediatamente sottostante una delle frane, rasa al suolo; le strade sono metri di fango, si estraggono cadaveri e qualche volta persone ancora vive (con splendide testimonianze come la puntata de La Storia Siamo Noi).
Oggi Sarno porta ancora ferite aperte; canali scolmatori e casse di espansione sono stati realizzati, ma quando ci passi vicino sembra che paradossalmente vi regni comunque l’incuria, e speriamo sempre che siamo noi che vediamo le cose troppo tragiche. Tutt’intorno sono rifioriti i quartieri, e neanche questa forse è una buona notizia. Ci sono palazzine a due-tre piani nuove, di quelle degli anni 2000 fatte con lo stampino con i soldi della ricostruzione. Sarno c’è ancora, ce n’è ancora tanto, ma si vede che qualcosa manca, che è troppo nuovo per essere di queste parti, di questi centri con le vecchie case costruite una in fila all’altra, tra grandi androni, volte di marmo e balconcini al secondo piano. Andiamo in uno dei simboli della tragedia: lo scheletro di Villa Malta, un ospedale centrato in pieno dalla colata, arrivata fino al secondo piano, con 6 medici morti come topi per mettere in salvo i loro pazienti, una cosa che se ci entri dentro e pensi che 15 anni fa mentre tu affrontavi le prurigini adolescenziali ci si moriva annegati, ecco, un po’ di magone ti viene. Trovate qui qualcosa scritta dal Corriere su Villa Malta per il decennale dell'evento.
Villa Malta è al centro di un quartiere di case a tre piani, in fila lungo una strada stretta ma abbastanza trafficata per essere domenica. Ci arriviamo dopo aver chiesto al mondo dove poter trovare i segni dell’alluvione, e davanti un bar troviamo un buon uomo che ha perso il fratello nella tragedia e quando ci racconta che la ricostruzione comunque non funziona e che questi canali, sì, ci stanno ma speriamo che non servano e se dovessero servire chissà se lo faranno bene, gli si fanno un po’ gli occhi lucidi. L’uomo ci accompagna in macchina proprio davanti lo slargo da cui poter accedere a Villa Malta. La struttura non è grandissima per essere un ospedale. C’è un grande androne preceduto da un giardino. Peccato che tra noi e l’androne ci sia una ringhiera abbastanza alta da scavalcare. E qua tra chi è chiatto, chi ha le ginocchia sfondate e chi le cervelle che non gli funzionano, non si sa come ma riusciamo a scavalcare stando anche attenti che nessuna macchina ci veda. Si entra nell’ospedale, l’androne è spalancato, le due porte di legno sono gonfie d’acqua e di incuria e praticamente schiacciate verso le mura interne. E qui il primo particolare: nel volume triangolare formato dai due lati del muro e dal portone vi è il fango di 16 anni fa, ormai solido, dei rami che spuntano verso di noi. Si fa quindi più nitida l’idea di cosa voglia dire vedersi arrivare contro un muro di fango. Nel seminterrato odore forte di fango nonostante gli anni: c’è uno di quei vecchi armadietti da ufficio, mezzo ammaccato ma soprattutto depositario anch’esso di fango, con qualche intrusione di rami secchi. Altro fango accatastato pieno di ferri e immondizia varia. Saliamo le scale, si vedono ancora i segni della colata lungo i muri, al primo piano idem, si vedono macchie un po’ ovunque ma non è rimasto quasi nulla di macchinari, letti, armadi o quant’altro. D’altronde qui non c’è più neanche un filo della corrente: hanno rubato il rame in tutte le stanze, il pavimento è ridotto in pietruzze proprio perché hanno rotto ovunque per togliere i cavi, anche vicino ai muri, su tutti e tre i piani. Della struttura, dunque, resta solo lo scheletro, ormai piccionaia visto che il pavimento è coperto anche da un letto di escrementi che non sono un bel vedere. Giriamo per le stanze, il bianco del muro si ripercorre uguale con intrusioni di fango qua e là. Al secondo piano lo stesso ma si vede il livello massimo della colata a metà della rampa tra il primo e il secondo piano. Mentre giriamo per la villa tra stanze vuote e pestando schifezze e pietrisco, sentiamo un allarme suonare, pare quasi venga da lontano. Non ci facciamo troppo caso ma continuiamo il nostro giro, senza però trovare altre novità rilevanti.
La materialità degli oggetti in quello spazio costituisce, e contemporaneamente plasma, la nostra percezione da esterni, che hanno avuto la fortuna di non vivere l’evento ma avvertono la necessità di farselo raccontare e raccontarlo. Ci dirigiamo verso l’uscita, l’allarme continua a suonare e sembra lontano, invece è proprio sulla parete affianco il portone principale. Stridulo come un violino tzigano, suona proprio per noi, che comunque non siamo venuti a fotterci il rame. Scavalchiamo stando sempre attenti che nessuno ci veda, e riprendiamo il nostro nulla domenicale con un aperitivo: una uagliona sinuosa porta da mangiare per un esercito. Si ordina un chinotto, e anche questa pratica è archiviata.