image1 image2 image3

 

Testo: Giuseppe Forino

Quando un evento tragico colpisce una comunità sembra quasi naturale l’esigenza di “fissare” il luogo in cui il disastro è avvenuto, come si fa con la piega alla pagina di un libro per ricordarsi di quella pagina o quella frase ad effetto. A Berlino il museo sugli orrori del nazismo sorge su uno spazio precedentemente ospitante un hotel poi divenuto quartier generale della Gestapo ai tempi della dittatura nazista; ma abbiamo anche Trafalgar Square, Ground Zero, le steli e le lapidi disseminate ovunque per il mondo. Vabbè, basta banalità: queste cose le sapete e, soprattutto, più di noi esploratori improvvisati. Girovagando per l’Italia, però, certamente colpisce come questa funzione di segnapunto (Landmark, una specie di roba seria) sia espletata dagli orologi pubblici. La funzione dei campanili prima, e degli orologi poi, che scandivano la giornata dei contadini e la vita civile della comunità è questione ormai banale, per cui soprassediamo (e pure frettolosamente). Ecco che l’orologio, però, diventa il modo per fissare la scala temporale dell’evento nella scala spaziale del territorio, trasmettendo ai posteri il perché quello spazio è così in quel momento e magari lasciando le lancette sull’ora dell’episodio. Famosissimo l’orologio della stazione di Bologna, fermo a quelle 10,20 del tragico 2 agosto 1980 quando una bomba mieteva vittime, che campeggia opposto all’altro orologio, perfettamente uguale, che invece riporta l’ora corrente. Per chi ha avuto la fortuna (antropologica) di poter visitare l’Abruzzo e l’Emilia post-sisma, il museo della memoria del sisma a Fontecchio, borgo medievale a mezz’ora dall’Aquila, si trova all’interno di un complesso che ospita l’orologio del paese, non più funzionante perché qualcuno dovrebbe prendersi la briga ogni due e tre di inerpicarsi su una scaletta per ricaricarlo. E quello dell'Emilia è invece definito il “terremoto dei campanili” (a proposito, lo scorso 20 maggio è passato un anno,  domani sarà un anno dalla seconda scossa) proprio perché quei paesi lungo la via Emilia si identificavano strettamente con quei campanili che nei secoli passati hanno svolto il nobile ruolo di scandire le giornate tra i campi assolati della Bassa. Campanili purtroppo gravemente danneggiati dal terremoto, come quello famosissimo di Finale Emilia, che i corvi dei telegiornali dovevano mostrare a ogni piè sospinto. Il campanile poi è stato abbattuto per pericolo crollo, ma l’orologio è stato ricollocato nella villa al centro del paese con una struttura portante di acciaio. Il paese riparte dal suo orologio: essere da monito, riaccendendo la speranza.

In una giornata primaverile ma climaticamente autunnale, con il mal di stomaco perché il nostro autista aveva deciso che i 60 km da Melito a Senerchia dovessero essere percorsi modalità rally tra i campi coltivati, arriviamo a Senerchia con lo stomaco a tracolla. Per prima cosa dunque beviamo un chinotto e risparmiamo le jastemme del sacro sud all’autista giusto perché è amico nostro e fondamentalmente ‘nu buono uaglione. Il mantra pertanto si ripete: il chinotto al bar, con gli anziani che giocano a carte e i giovani che scommettono sul campionato.

Poi, visita al vecchio paese. Per andare al vecchio centro di Senerchia, distrutto dal sisma del 1980 (d’altronde l’epicentro di Teora è praticamente di fronte), devi passare per il paese nuovo. Non esprimiamo giudizi, non crediamo di esserne in grado, ma ci pare (alziamo le mani, siamo ignoranti e lo sappiamo) meno scriteriato di Conza e di Romagnano al Monte. Comunque sia, bisogna attraversare il corso principale del paese per arrivare alla parte vecchia, separati anche qui dall’orologio che segna le 19,32 del 23 novembre. Qui l’orologio è incastonato, come vedete anche dalle foto, in una struttura alla quale passare sotto e poter leggere i nomi delle vittime del sisma. Si lascia pertanto il nuovo, tramite questo “varco”, che più che materiale è soggettivo e interiore, e ci si prepara alla visita del vecchio con il simbolico training autogeno dell’orologio preparatore. C’è da dire che il tutto sembra quasi un tentativo di realizzare un’area museale a cielo aperto. Alla sinistra dell’orologio una piccolo parco con giostrine e il belvedere, e alla destra, un po’ più in alto, un parco della memoria per 16 aviatori statunitensi (e 16 alberelli) che nel 1944 precipitarono nel territorio di Senerchia. Un monumento di bronzo con i loro nomi, le bandiere italiane e statunitensi che svettano sulle aste l’una affianco all’altra. Il vecchio centro di Senerchia è, a quanto pare, soggetto a dei lavori di ristrutturazione; già alcune case, immediatamente di fronte ad esso, sono state riprese. La strada principale anche qui è tutta tubi e impalcature, anche perché il grado di equilibrismo per alcune strutture ci ricorda molto la precarietà di Romagnano. Sicuramente è interessante il fatto che questo tratto sia in realtà un sentiero del CAI; è stato anche ripreso e riparato, più avanti è stata eseguita una pavimentazione, anche se i cordoli di marmo non crediamo siano proprio funzionali, messe alcune lampade già rotte e non funzionanti. Insomma, siamo sempre a sud: così è, se vi pare. L’area non è piccola, e oltre al “centro” si può continuare a salire e trovare altre case sventrate e abbandonate lungo il costone.

Il paese sorgeva lungo un torrente che praticamente scorreva accanto ad alcune abitazioni. Ad alcune di esse ci si accede passando piccoli ponticelli. Certo, d’inverno con la piena non osiamo pensare a cosa accadeva, sarebbe interessante una ricerca storica sulle esondazioni. C’è una casa praticamente nella curva del torrente, con una finestrella a non più di due metri dal pelo dell’acqua. Si riesce ad accedere ad alcune case, ce n’è una particolarmente bella sulla destra, a tre piani con un bel terrazzo. Sembra che già siano stati fatti alcuni lavori di manutenzione, alcune pareti tinteggiate e a quanto pare addirittura il contatore dell’elettricità. Al solito in queste case troviamo di tutto: bottiglie, lettere, giornali, sedie scassate, letti e materassi rosicati dai topi. Incontriamo un paio di persone che passeggiano e fumano una sigaretta: probabilmente il luogo è molto più vissuto del parco di Conza, che è lontano dal centro nuovo e ci si deve arrivare apposta (a far che, se non a visitarlo o a fumarsi i bomboloni?). Prova ne è anche il fatto che ci sono alcune insegne posticce su alcuni vecchi portoni; probabilmente si svolge qualche festa di paese, qualche sagra di prodotti tipici nella cornice suggestiva di legni rigonfi d’acqua, cardini arrugginiti e pavimenti con quintali di polvere. Se si continua a salire si gira verso destra come se si volesse tornare indietro e si può giungere ad una chiesetta dedicata a Sant’Antonio (così ci sembra di ricordare) che però è chiusa ma sicuramente restaurata. Proviamo a continuare per vedere se sbuchiamo da qualche parte per poter tornare indietro, ma a quanto pare si continua a salire per il costone e i vecchi vicoletti per ritornare sulla strada principale non sono percorribili. Piove maledettamente, lo stomaco è sottosopra e si è fatta una certa. Chi lascia la via vecchia per la nuova…..torniamo sulla vecchia, rifacciamo tutto il percorso e passiamo nuovamente sotto l’orologio. Quelle 19,32 ci hanno fatto iniziare il percorso del blogghe: descrivere un sisma nei suoi silenzi e nelle sue rovine è difficile. Noi, sotto la pioggia, ci proviamo.   

 

 

 

 

Foto Sandro Montefusco

 

Foto Sopralluogo di Sirio Di Capua

Sener (8)Sener (13)

Share