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IL MANICOMIO GIUDIZIARIO DI AVERSA

“I matti non hanno più niente, intorno a loro più nessuna città, anche se strillano chi li sente, anche se strillano che fa” (I matti, F. De Gregori, 1987) 

Come cita in un post del 2012 il blog Lavoro Culturale, una Proposta di Legge presentata alla Camera aveva provato a reinserire l’”obbrobrio etico” della struttura manicomiale (o carcerale, coercitiva, ingiusta, fate voi con i peggiori aggettivi che possano venirvi in mente) in Italia. Non sappiamo che fine abbia fatto la proposta di legge ma speriamo se ne sia persa traccia, visto che metteva a repentaglio le conquiste sofferte dello psichiatra Franco Basaglia, che dopo anni di battaglie riuscì a riformare l’approccio alla cura dei malati psichiatrici, e quindi l’ordinamento legislativo e, cosa ancora più importante, riuscì a creare una nuova concezione culturale della malattia e dell’assistenza ospedaliera per i “matti”. Come riporta lo stesso blog, è grazie alla sua opera indefessa che “nel 1978, dopo un percorso più che decennale di lotta all’istituzione totale manicomiale, l’Italia ha sancito per legge la chiusura e la dismissione di questi lager a cielo aperto. La distruzione di queste strutture coattive – camuffate da luoghi di cura e tutela – ha significato per il nostro paese un importante passo di civiltà: dalla cultura della contenzione a quella della relazione”.

Oggi parliamo di ex-manicomi. Nel nostro girovagare e osservare ci è capitato poco di visitare zone “dismesse” in centri abitati, questa volta però ci siamo recati in un luogo che da parecchio tempo stuzzicava la nostra fantasia di voyeur. Si va pertanto a nord di Napoli, nel paesone di Aversa, area che noi non bazzichiamo affatto, alla ricerca del locale Manicomio Giudiziario. Youtube offre un gran numero di video dedicati a questo spazio enorme, filmati Luce o video “clandestini” girati recentemente nell’interno.

La Real casa dei matti di Aversa, primo manicomio d'Italia, fu inaugurata da Gioacchino Murat nel 1813, e nel periodo di massima estensione conteneva più di 6000 reclusi. Nel marzo del 1944 fu considerato centro per i profughi di guerra, e pertanto molti dei pazienti ospitati si dispersero, e fu messa in liquidazione anche la colonia agricola istituita per far lavorare i pazienti onde evitare l’ozio perenne. Solo nel 1946 i folli ritornarono e iniziò nuovamente la vita ospedaliera fino alla chiusura nel 1978 con la legge Basaglia (MIBAAC, 2010, p. 28). Facile quindi aspettarsi qualcosa di imponente, una piccola cittadina raccolta in un edificio imponente. E così, mentre l’Italia segue il calcio spezzatino domenicale proviamo a entrare nelle strutture che è ancora possibile visitare. Nella zona perimetrale ci sono comunque il SERT per i tossicodipendenti, un canile e qualche altra associazione locale. Questo da un lato rende il luogo meno spoglio, dall’altro ci dà ulteriori preoccupazioni di essere sgamati, magari con qualche cagnaccio alle calcagna. Non che la cosa sia in sé preoccupante (meglio, i cani certo che lo sono), ma doversi poi giustificare con qualunque persone, spiegare, fare-dire-vedere-arrampicarsisuglispecchi non è sempre semplice.

Nella nostra breve esperienza abbiamo visitato luoghi differenti abbandonati per differenti motivi, ma abbiamo sempre pensato, da buoni parvenu, di esserci fatti le ossa in relazione al senso di abbandono, alla tristezza o all’angoscia delle storie di questi luoghi, tragiche e violente, e dimenticate. Purtroppo o per fortuna non è così. Purtroppo, perché l’angoscia non è un sentimento piacevole, e più ce n’è e più scoraggia, intristisce e abbatte anche gli animi più forti che sono in giro per il puro gusto di conoscere. Per fortuna, perché ci si rende conto che il mondo non è solo bellezza e gioia, ma anche disperazione e sofferenza, e si elabora un senso di profondo rispetto per chi, per motivi piccoli o grandi, si è lasciato sopraffare dalla sofferenza e dalla malattia o, semplicemente, dal corso della vita. In questo caso siamo di fronte ad uno spazio angosciante: l’enormità della struttura, delle sale e dei soffitti, misti a quel silenzio e a quella puzza di morte e disperazione, ci pervadono totalmente. E’ una scenografia di sconforto adrenalinico. Giriamo per stanze dagli alti soffitti e corridoi lunghissimi, ma questa volta anche la nostra più cupa immaginazione e il nostro cinismo non può toccare il dramma di questi luoghi. Quelle scritte degli internati che pregano di morire, quelle frasi prive di senso apparente, quelle mura bianche che sappiamo aver contornato decenni di segregazione e sofferenza per migliaia di persone, quasi sempre in abbandono e marginalizzate da tutto ciò che è il vivere civile, opprimono la nostra visita. Nei cortili interni è difficile non provare rabbia quando, alzando gli occhi, si vedono i bellissimi affreschi nelle arcate laterali. Riusciamo ad accedere ad un’ala della struttura principale dove su un piccola targa accanto una porta si legge “Suore”; probabilmente era il dormitorio delle suore che assistevano gli internati. Bagni, camerate, una cappella, una piccola infermeria ed una porta murata (forse quella che accedeva alle stanze degli assistiti). Nei corridoi solo qualche armadio, spugna di materassi rosicchiata dai topi e marcita dall’umido, polvere, muffe, vetri rotti e calcinacci, un must per questi luoghi abbandonati, chiusi da decenni agli occhi dell’uomo. Nei cortili e negli ingressi del primo piano c’è ancora del materiale sanitario, vecchi letti, dei registri ingialliti o gonfi d’acqua, biancheria polverosa. Non sappiamo se comunque svolga ancora una funzione di deposito, visto che a quanto pare la struttura appartiene ancora all’ASL di Caserta.

Cerchiamo di liberarci dalla profonda tristezza e dal silenzio, e proviamo a mettere a fuoco ancora qualche altra immagine. Nell’uscire sentiamo delle voci, facendo mente locale della ciotola con crocchette che abbiamo trovato nell’ingresso periferico. Timorosi e con molta cautela ci avviciniamo all’uscita. Due cani sono lì che corrono verso di noi. A questo punto malediciamo le nostre passeggiate domenicali, pensiamo che il divano post-lasagna sarebbe un’ottima opzione per riposare le nostre stanche terga e restiamo immobili. I cani si fermano ad un metro dalle nostre chiappe, le voci di persone richiamano le gentili, ma affamate, bestiole e così decidiamo di girare ancora un po’ nel parco del manicomio prima di guadagnare l’uscita, in attesa che le macchine vadano via insieme a quei cani. Entriamo ancora in una grande struttura a due piani. Lunghissimi corridoi, bagni comuni, stanze spoglie e porte con feritoie, ancora materassi logori. Tutto questo si ripete ininterrottamente su entrambe i piani e lungo tutti i corridoi. Saliamo sul tetto per vedere che fino abbiano fatto i nostri amici, e solo allora ci rendiamo davvero conto di quanto questo luogo sia immenso. Una città con un grande parco adiacente. Siamo nati negli anni ‘80 dopo la riforma epocale della legge Basaglia pertanto non ci è mai capitato di “vivere” più da vicino esperienze del genere né abbiamo avuto esperienze familiari o di conoscenze tali. Andiamo via dalla crudezza del manicomio, della sua struttura e dello svuotamento della vita sotteso dietro questa parola, con negli occhi quelle scritte da prima elementare sui muri del cortile. Dramma, ingiustizia, mistero, fragilità: sono storie soprattutto queste, più di tanti altri vincenti e vincitori. Recuperarle è un dovere, ma lo stomaco deve essere davvero forte.

 

Per saperne di più:

MIBAAC, Primo Rapporto sugli Archivi degli ex Ospedali Psichiatrici (da Scribd in preview dovreste riuscire a leggere la scheda sulla Real casa di Aversa) http://www.scribd.com/doc/120156629/Primo-Rapporto-Sugli-Archivi-Degli-Ex-Ospedali-Psichiatrici-in-Italia-Sbloccato

Si vedano alcuni reportage fotografici, ad esempio qui: http://www.napolicittasociale.it/portal/reportage/2916-cosa-resta-del-manicomio-d-aversa.html

Molto bella, sia per come viene trattato il tema sia per l'attinenza con gli scopi di questo blog, è la canzone di Simone Cristicchi "Ti regalerò una rosa", il cui video ufficiale è stato girato all'interno del manicomio abbandonato di Volterra, nel quale si vedono ancora interni e oggetti che facevano parte del vivere quotidiano e, ahinoi, delle pratiche cliniche.

 

 

foto di sandro montefusco

 

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